Article from Il Corriere della Sera  january 7 2021 - (with english version)

 

Artiolo da Il Foglio  15 decembre  2020 

 

Articolo da La Repubblica del 10 dicembre 2020 

 

Articolo da Il Giornale del 1 dicembre 2020 

 

Articolo da Il Giornale di Brescia dell' 8 dicembre 2020

 

Articolo da Il Giornale di Brescia del 24 luglio 2020

 

Articolo da Il Corriere della Sera del 24 luglio  2020

 

Michele Serra per Gian Butturini

Riportiamo l'articolo di Michele Serra su La Repubblica 

 

Editoriale di Witness Journal a cura di Amedeo Francesco Novelli

 

Attenti al gorilla

 

Le recenti dimissioni di Martin Parr dal ruolo di direttore artistico del Bristol Photo Festival, con tanto di lettera di scuse e pubblica abiura di stampo galileiano, sono solo uno degli ultimi effetti della deriva iconoclasta nata in seno al movimento Black Lives Matter. Premesso che chi scrive condivide appieno le istanze di uguaglianza e giustizia sociale alla base delle proteste iniziate dopo la tragica morte di George Floyd, le immagini della distruzione di statue o le notizie che riportano altri tentativi di rimuovere pezzi di storia, piuttosto che pareggiare i conti con ciò che è stato, evocano errori simili già commessi dall’uomo nel gestire la testimonianze delle proprie azioni passate. Dopo i roghi di libri alimentati dalla furia nazista, dopo la distruzione di massa dei simboli del comunismo sovietico, o la demolizione a colpi di bazooka da parte dei talebani delle vestigia di culture e religioni diverse dalla loro, ora è il turno del generale Lee, di George Washington, di Andrew Jackson, di Thomas Jefferson, di Edward Colston, di Winston Churchill, di Theodore Roosevelt, di Cristoforo Colombo e perfino, di Gian Butturini.

Il grande fotografo bresciano, probabilmente sconosciuto a buona parte del pubblico più giovane, che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’immagine, in queste settimane è diventato, suo malgrado, il nuovo bersaglio di questo revisionismo sbagliato e ottuso.

Per chi non la conoscesse, la storia è tanto triste quanto semplice. Il giorno del suo compleanno Mercedes Baptiste Halliday, ventenne studentessa inglese di Antropologia, riceve in regalo dal padre una copia di London, libro fotografico firmato da Gian Butturini nel 1969. Non si tratta dell’edizione originale, difficile da trovare anche per i collezionisti, ma di una completamente nuova, pubblicata dall’editore bolognese Damiani e corredata da uno scritto introduttivo firmato da Martin Parr. Dopo averlo sfogliato, alla vista di una pagina che accosta l’immagine di una signora di colore a quella di un gorilla in gabbia, Mercedes trasale e scrive un post su Twitter che in breve tempo si trasforma nella classica palla di neve che diventa valanga. L’opera di Butturini, che per sua fortuna è già passato a miglior vita, da importante testimonianza della società inglese di quegli anni, assurge ad emblema del suprematismo bianco. Poco importa che la storia dell’artista bresciano testimoni un profondo interesse verso i più deboli e una grande sensibilità sociale. A nulla servono nemmeno le parole di Giuseppe Damiani, in arte Ken Damy, amico di Butturini che prova a spiegare come il lavoro dell’amico “puntasse proprio a evidenziare le condizioni disumanizzanti della società inglese alla fine degli anni Sessanta”. Restano inascoltate anche le parole di Renato Corsini, profondo conoscitore del lavoro di Butturini, che senza mezzi termini parla giustamente di “una caccia alle streghe in nome del politicamente corretto”, ricordando che London “è un capolavoro di fotografia e grafica, volutamente provocatorio attraverso l’ironia e il sarcasmo”. Infine, resta inascoltata anche Marta Butturini, la figlia, che sottolinea l’errore grossolano della studentessa inglese con poche ma chiare parole: “Non si può estrapolare una frase da un libro per giudicarlo, quello è un racconto per immagini sulla società di quel periodo”. Lapalissiano.

Il vero colpo di grazia, arriva però solo qualche giorno fa e, come nei migliori gialli di Agatha Christie, l’assassino non è il cattivo di turno ma un insospettabile: Martin Parr. Con grande sorpresa e altrettanto dispiacere, il grandissimo fotografo inglese, sotto una pressione mediatica divenuta insostenibile per sua stessa ammissione, si arrende ma lo fa, ahimè, nel modo peggiore possibile e superando abbondantemente quel limite che gli avrebbe garantito almeno una benevola comprensione. Infatti, dopo aver rassegnato le proprie dimissioni da direttore artistico del Bristol Photo Festival, Martin Parr si è scusato pubblicamente per il caso Butturini dicendosi favorevole alla rimozione di London dalle librerie, riconoscendo di fatto come vera la teoria della Halliday. Detto che i meglio informati parlano di un Parr metaforicamente all’angolo e preoccupato per la sua immagine così come per la sua monumentale carriera, anche senza pretendere che un grande fotografo debba per forza essere anche un “eroe”, resta la convinzione che il solo condividere l’idea di mettere all’indice l’opera di Butturini, come quella di qualsiasi altro autore, sia stato il modo peggiore per scusarsi, oltretutto per ciò che non aveva neppure commesso.

Ma davvero qualcuno crede che abbattendo statue, cambiando nome a strade e piazze, piuttosto che mettendo all’indice senza alcun giustificato motivo un libro fotografico, si possa cambiare in meglio il mondo? La cancel culture, così la chiamano, è un ossimoro concettuale, non è solo profondamente sbagliata ma è anche pericolosa perché, di questo passo, si rischia di giustificare la progressiva distruzione della memoria comune, probabilmente il lascito più importante della Storia stessa. Per colmo di paradosso, qualcuno prima o poi arriverà a chiedere la distruzione dei campi di concentramento nazisti, la demolizione dei quartieri fascisti di Roma e così via, in nome di una giustizia postuma, astorica e profondamente sbagliata. Le rivoluzioni hanno successo quando si concentrano sui veri responsabili delle ingiustizie che si intendono combattere e non accanendosi sulle vestigia di personaggi vissuti nei secoli passati in nome di un revisionismo, la cui unica conclusione rischia di essere che tutto è andato a rotoli per colpa di Eva.

 

 

Amedeo Novelli